Ma perché?
Perché questi americani si fanno riempire thermos individuali da mezzo litro di ghiaccio e superalcolici – ho visto con i miei occhi versarci un quarto di bottiglia di tequila al cocktail bar – con 44° percepiti, alle 10 di mattina? Cosa li spinge a starsene immersi con l’acqua alla cintola in piscina, con i bicchieri perennemente in mano, immobili a mollo come un branco di ippopotami di cui esibiscono anche la stazza?
E tutti quei liquidi, torneranno in piscina in altra forma?
Ma perché fingere una cerimonia di nozze con rito maya a 60 anni? Perché allestire un set di seggioline candide sulla spiaggia, con invitati vestiti di bianco, incenso, wedding planner e sciamano mascherato che soffia nella conchiglia? Cosa li disturba?
Ma perché offrire formule all inclusive di alcool, zucchero, cibo colorato e fluorescente in una società dove l’obesità è emergenza sanitaria? Micidiale anche per me che, da sempre seduta a tavola in compagnia dei “bambini che muoiono di fame”, non riesco a lasciare nemmeno due dita d’acqua sul fondo del bicchiere.
Ma forse il punto è: ma perché ci sei andata – rompiballe – nei resort della Riviera Maya? Forse perché dopo 3.600 km via terra, 5 stati, 12 tappe si pensava di rilassarci un po’ per non tornare distrutti. Rilassarsi con tre giorni in un “non luogo”.
Nella definizione del sociologo Marc Augé – e qui arriva il pippone, spoiler – i “non luoghi” sono quegli spazi che non sono identitari, relazionali e storici. Il “non luogo turistico” è quel posto rassicurante dove non trovi il paese in cui sei, ma quello da catalogo, familiare, addomesticato, uguale in qualunque parte del mondo.
Puoi usare un inglese da scuola media, dare le mance in dollari, mangiare cibi che conosci e trovare la cartolina che ti aspetti. E, al contempo, non fare nessuna esperienza.
Lo avete capito anche voi: nel resort mi riposo, ma inacidisco parecchio.