Bailianzoni. Remix ad uso personale

Bailianzoni. Remix ad uso personale

E’ stata una settimana fortunata.

Nell’arco di pochi giorni ho avuto l’occasione di ascoltare due persone che seguo, che stimo, che ispirano spesso il mio lavoro.

Uno si occupa di teatro, l’altro di educazione. E la definizione, come tutte le definizioni, non corrisponde al vero e potrebbe attribuirsi senza errore ad entrambi.

E’ esattamente la frontiera tra quei due mondi, credo, che mi ha richiamato ai due appuntamenti come il canto di una sirena.

Uno parlava a Bologna in un’aula magna del DAMS a una platea prevalentemente composta di studenti.

L’altro, a Modena, in una scuola elementare di quelle “da copertina”, a una platea di insegnanti ammutoliti e quasi commossi nel riconoscersi legittimati nelle proprie “utopie”.

Marco Baliani teneva una lectio magistralis dal titolo “Ditemi prima i vostri nomi” in cui raccontava il proprio lavoro con un gruppo di attori per costruire una performance per la scena.
Pochi giorni dopo, Franco Lorenzoni riempiva di senso il suo incontro “I bambini hanno più bisogno di dare che di ricevere” narrando la sua pratica di maestro elementare, fatta di ascolto e ricerca condivisa.

Come sempre, la fascinazione nasce quando ritrovi espresse, con una lucidità e una profondità di cui tu non saresti capace, convinzioni che già andavi maturando per tuo conto. Lo “stupore” del riconoscimento, per dirla alla Baliani.

E io ho trovato in entrambi gli interventi – badate bene, esattamente in entrambi – alcuni nuclei che ultimamente vanno catalizzando anche il senso del mio lavoro nei laboratori e sulla scena.

  1. Lode all’approccio sinceramente maieutico e di costruzione collettiva nel lavoro del regista, come in quello dell’educatore. Il compito del “maestro” – in senso proprio – è quello di porre delle domande generative, è quello di favorire un “gruppo di ascolto” in cui esistano le condizioni per creare, è la fatica, grande, di stare in ascolto e di tracciare la rotta mentre si cammina.
    Il “maestro” non porta risposte o soluzioni preconfezionate; fa buone domande – quelle che aprono a risposte divergenti – e ascolta davvero. Non giudica, suggerisce. E mai con la compiacenza di chi sa già dove vuole arrivare, ma di chi davvero partecipa al viaggio corale.
  2. Lode allo spreco.Ci vuole tempo (o fingere di averlo), bisogna attraversare esperienze inutili, procedere a tentoni. Non avere aspettative, né la tentazione di finalizzare subito, di risolvere.
    Abitare il processo di ricerca, sedimentare esperienze, non avere programmi, scadenze (o almeno, nella parte centrifuga del percorso, fingere di non averli), lasciarsi sorprendere dall’imprevisto divagante.
    In principio serve lo spazio vuoto, l’agorà, e un mare piccolo come un catino, facile da attraversare, in cui i diversi vengano a contatto portando tesori inconsapevoli che si sedimentano nell’esperienza collettiva.
  3. Siamo materia. L’attore che crea per la scena, come il bambino che costruisce la propria conoscenza, è un artigiano, conosce e si relaziona attraverso il corpo, deforma rettangoli di legno per intuire una formula geometrica, mescola linguaggi, confonde le discipline.
  4. Chi lo chiama equipaggio, chi comunità, comunque il gruppo che crea insieme arriva a condividere un linguaggio (talvolta talmente esoterico che fatica a divenire comprensibile al pubblico) in cui l’altezza di un parallelogramma diventa per la classe “la linea invisibile di Mario”. Un gruppo in cui ciascuno finisce per fidarsi degli altri, per riconoscere ai compagni una possibilità creativa, una competenza.

In teatro, e credo anche nella classe del maestro Franco, sei invitato a pensare coi pensieri degli altri ed esplorare luoghi in cui, da solo, mai saresti arrivato.
Anche se sei il maestro, soprattutto se sei il maestro.

E adesso, dopo tanta ispirazione, facciamo un po’ del nostro meglio e copiamo, come si può.

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