Io esercito due mestieri, entrambi – ahimè – creativi.
Due. Perché ho necessità dinutrire lo spirito e pure la famiglia.
Due. Perché io ci sto molto bene nella mia doppia vita professionale. Magari sono gli altri che, talvolta, si confondono e capita che un responsabile acquisti non si capaciti che il direttore mkt “voglia davvero affidare i social a un’attrice?” oppure, dall’altra parte, “sì, fai l’attrice, ma di lavoro vero?”.
Insomma, all’inizio un po’ di fatica si fa.
Che di teatro in Italia non sia facile vivere mi era chiaro da subito.
Quelli della mia generazione, cresciuti con i telefilm americani degli anni 80, hanno capito presto che FAME, il titolo di una serie che andava alla grande, qui doveva tradursi letteralmente: la “fame” era infatti esattamente quello che avrebbero fatto in Italia gli aspiranti famosi Leroy, Coco, Bruno Martelli, in compagnia di una moltitudine di artisti vari.
Non è bello, non è giusto, è miope… ma abbiamo ormai interiorizzato che nel Belpaese intorno alla cultura non girano grossi budget.
Il “bambole, non c’è una lira” del capocomico lo portiamo inscritto nel DNA nazionale, come i terremoti, la mafia, l’opportunismo.
Sembrava diverso per i “professionisti della “comunicazione”, i pubblicitari– l’altra categoria cui appartengo da 25 anni. A dispetto delle etichette che cambiano, da copywriter a social media coso, so che è un mestiere che, al pari di qualunque altro, richiede know-how, formazione e lavoro duro.
Oggi – ahimè senior – posso tristemente dire di averle viste tutte: dagli anni della Milano da bere, in cui niente era più socialmente figo ed economicamente promettente che essere art director o copywriter, all’epoca dell’appassionato esercito di freelance a partita iva… fino alla storia recente: lo sdoganamento da parte di un ministro della Repubblica del #aTitoloGratuito per il lavoro creativo.
Grazie Ministra, mancava proprio che lo dicesse lei che ha così chiaro il valore della buona comunicazione!
Gesù, se rinasco, fammi posatore o elettricista.